4 febbraio 2015: John Keats e Giacomo Leopardi

Alla lezione di Inglese ho recitato oggi a memoria, non senza emozione, in due passaggi mi sono anche confuso, il famoso sonetto di John Keats Happy is England!, composto nel tardo autunno 1816 e pubblicato nella raccolta Poems edita da Ollier nel 1817 (ultimo della raccolta).
Il poeta sente un grande desiderio, come un languore, a languishment, «per i cieli italiani», un urgente bisogno di «sedermi su un’alpe, come su un trono, fino quasi a obliare quel che vuol dire il mondo e il mondano» (traduzione di Roberto Cresti, Sonetti, Garzanti, 2009, p.47).
To sit upon an Alp as on a throne,
And half forget what world or worldling meant
Nel pomeriggio dovendo compiere, per la redazione della scheda di una mostra della Galleria Ceribelli, una breve ricerca sul muro come simbolo letterario della invalicabile ineluttabilità delle cose («cittadine infauste mura»…«in questo seguitare una muraglia»…), leggo il canto di Leopardi La vita solitaria, composto nell’estate 1821 e, felice coincidenza, vi trovo un passo che per senso e immagine è del tutto simile a quello sopra citato di Keats. Il poeta italiano è in campagna nella tenuta di San Leopardo, a pochi chilometri da Recanati, seduto «in solitaria parte, sovra un rialto al margine d’un lago di taciturne piante incoronato». Contemplando il lago e la natura, immerso nella quiete che regna tutt’intorno:
«Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
sedendo immoto…».
In ambedue i passi quattro parole: half quasi, forget obblio, world mondo, to sit sedendo.
Leopardi conosceva il sonetto di Keats? Dubito molto, anche se sappiamo che il fratello Carlo era un colto estimatore della cultura inglese e che la sorella Paolina era una raffinata lettrice di libri inglesi e francesi. È invece certo un comune sentire della poetica romantica, nella quale il motivo dell’oblio, del dimenticarsi, del perdersi nella estasiata contemplazione della natura è tra i più ricorrenti, immaginati e descritti.
Noto due varianti. Leopardi accentua il perdersi di sé come individuo con l’aggiunta di quell’«io», Keats il senso fuggitivo o superficiale o inessenziale del mondo con l’aggiunta di quel wordling, mondano. Salvo queste due varianti, la corrispondenza è perfetta. Colpisce la presenza in entrambi di un avverbio half, quasi, come se i due poeti avvertissero che il tono di assoluta asserzione dell’annullarsi del mondo, di cui non si ha piena certezza o consapevolezza, andasse attutito, smorzato per risultare più vero.
Un’ultima considerazione: ambedue i poeti siedono in posizione elevata. Lo sguardo dall’alto («su un alpe … sovra un rialto … ermo colle»), per la prospettiva, l’elevatezza e l’immensità dello spazio di cui si gode, genera sensazione di raggiunto distacco dalle cose, di più grata solitudine, di maggiore levità spirituale.