23 dicembre 2013: Zurbarán a Ferrara

Sfidiamo la fitta nebbia del Polesine e raggiungiamo Ferrara, dove sino al 6 gennaio è allestita in Palazzo Diamanti la mostra di Francisco de Zurbarán (1598-1664), pittore di cui ci siamo innamorati a Siviglia, nella sua terra, quando visitammo la città andalusa sette anni fa.
I quadri esposti non sono molti. Alcuni già visti a Siviglia, Madrid, Londra, Barcellona, Genova. Altri, venuti d’oltreoceano, visti qui per la prima volta, concorrono felicemente, con quelli già visti, a delineare con maggiore compiutezza la nostra conoscenza del grande pittore spagnolo. In particolare, la mostra ci ha fatto conoscere l’ultima fase creativa del pittore, che va dal 1654 sino alla morte, avvenuta a Madrid nel 1664, fase nella quale Zurbarán si avvicina a Murillo, al tardo Ribera e anche alla pittura italiana di un Reni, come si vede nel Riposo durante la fuga in Egitto di Budapest del 1659, tela firmata e datata, bellissima, in cui spira un’aura dolce, è una luce uniforme, morbidezza dei panneggi, forme ed espressioni che non sono più quelle del periodo aureo degli anni Venti e Trenta. Di fronte a questo quadro mi è venuta immediata la domanda: – Ma questo è ancora Zurbarán? -.
Nello Zurbarán che amo non c’è sfarzo, movimento impressionante, nessuna enfasi barocca della gloria in excelsis. Non ci sentiamo annientati, sottomessi da epifanie travolgenti. Tutto è quiete, forma serena, gioia discreta d’esistenza, evidenza naturale, concentrazione, meditazione e preghiera, contemplazione e silenzio, lettura e scrittura. I suoi monaci dipinti per la Merced Calzada a Siviglia sono un monumento alla severità gioiosa, all’intelligenza fervorosa, all’autorità morale di lettori scrittori, possenti e umili, sbalzati dal fondo nero nelle loro vesti candide e luminose. Il più bello è Fra Jerónimo Perez, 1633 (Madrid, Academia de San Fernando), ed è qui a Ferrara. Valeva la pena di fare il lungo viaggio, pur nella nebbia, per rivederlo. Quanto sono belle e delicate le mani che reggono libro e penna; quanto sono intensi e diretti i suoi occhi nei nostri. Il frate, teologo e poeta del Cinquecento, fu docente all’Università di Valencia. Secondo Paul Guinard (Zurbarán et les peintres espagnols de la vie monastique, Paris, Ed. du temps, 1960, n. 416), che sottolinea l’altissima qualità del dipinto, il pittore avrebbe realizzato questo ritratto idealizzato prendendo a modello un giovane monaco del Monastero sivigliano. Non ho alcun dubbio.
Zurbarán isola ogni cosa con linee di contorno nette, crea figure che si stagliano da fondi scuri, o come sospese nella indeterminatezza della resa spaziale e ambientale, che tanto piacerà ai moderni, a cominciare da Manet. La luce non assorbe una parte del rilievo, l’ombra non sfuma i contorni, sino a nasconderli, che restano sempre evidenti a rimarcare i volumi. La luce di Zurbarán non unifica la scena, non stabilisce relazione d’ambiente, ma serve a definire ogni figura, vista e considerata per se stessa, figure calme, tranquille, di cui non si vede alcuno sforzo fisico, nessun inarcamento del corpo nello spazio del quadro. Lo sforzo, se c’è, è tutto spirituale, interiore.
Zurbarán è dotato di spirito contemplativo. Ma che cosa vuol dire contemplazione? Vedere le cose non nella relazione che noi stabiliamo con loro, relazione nella quale si cela sempre un interesse nostro, di utilità o di piacere, ma puramente in se stesse, nella loro libera e autonoma piena esistenza. Solo contemplandola, cogliamo la bellezza della forma. E sono occhi contemplanti e un’anima piena d’amore che guidano la mano abile, esperta e prodigiosa del pittore nelle sue splendide nature morte. Denotare la pittura di Zurbarán naturalista non è del tutto corretto, comunque non è sufficiente. La sua luce non è la luce che vediamo in natura, è tutta creazione di Zurbarán, inventata per accarezzare le cose contemplate con sguardo delicato. Così come parlare di tenebrismo caravaggesco in Zurbarán è vero solo in limitatissima parte. La luce del pittore spagnolo è del tutto diversa da quella di Caravaggio. Come non accorgersene?
Lunga sosta davanti alla grande tela che raffigura la Visione della Gerusalemme celeste, 1629 (Madrid, Prado). Mi piace tutto di questo quadro: l’essenzialità ed efficacia dell’ambientazione di sgrammaticata prospettiva; il colore chiaro, ameno, trasfigurante; l’angelo, un robusto ragazzo un po’ rustico; l’espressione sognante, meditabonda, felice del monaco s. Pietro Nolasco: lette alcune pagine, socchiusi gli occhi, contempla quello che ha appena letto, come succede ad ogni vero lettore quando, estraniatosi da ogni cosa, è tutto assorto nel suo libro.
Che cosa può avere appena letto il santo monaco? Gli studi iconografici non dicono o fanno varie ipotesi. A me piace pensare che abbia appena letto questa accorata pagina mistica delle Confessioni di s. Agostino (Libro XII, 17, 24): «Io mi ridurrò nella mia stanza segreta, in cubile meum, ove cantarti canzoni d’amore fra i gemiti, gli inenarrabili gemiti che durante il mio pellegrinaggio suscita il ricordo di Gerusalemme nel cuore proteso in alto verso di lei, Gerusalemme la mia patria, e verso di te, il suo sovrano, il suo illuminatore, il suo padre e tutore e sposo, le sue caste e intense delizie, la sua solida gioia, solidum gaudium, e tutti suoi beni ineffabili, e tutti simultanei, perché unico, sommo, vero bene. Non me ne distoglierò, fino a che nella pace di quella madre carissima, dove stanno le primizie del mio spirito, donde traggo queste certezze, tu non abbia adunato tutto ciò che sono da questa deforme dispersione, conligas totum quod sum a dispersione et deformitate hac, per formarlo e fermarlo definitivamente in eterno, o Dio, misericordia mia» (trad. di Carlo Carena, Torino, Einaudi, p. 483).
La poesia vive di poesia. Da chi può aver preso Zurbarán? In primo luogo dalla Spagna, dalla sua terra (ricordarsi sempre di Goethe: «se vuoi capire un poeta vai nella sua terra»); dall’amore per il particolare del tardo goticismo; dalla quieta ieraticità, concentrazione e nettezza della primitiva pittura ispano-fiamminga; dal sentimento, dal vigore e dalla essenzialità di El Greco; anche dal caravaggismo italiano e riberiano, ma solo come di un’aria leggera, avvertita appena.

         

“Una tazza e una rosa”, (Londra, National Gallery)              “Visione della Gerusalemme celeste” (Madrid, Prado)