12 luglio: Lettori come api

Nel preparare la lezione su Seneca, tenuta il 17 aprile alla Fondazione Serughetti La Porta, e che nelle prossime settimane pubblicherò su questo sito, ho raccolto materiale che doveva servirmi per commentare la lettera 84 di Seneca a Lucilio, nella quale il filosofo paragona i lettori di libri alle api che suggono il polline dai fiori. Come le api trasformano il polline in miele con una propria “virtù”, così il lettore deve trasformare, con una assimilazione personale e critica, quanto legge in miele, vale a dire in una personale rielaborazione: «Apes ut aiunt debemus imitari» (Lettera di Seneca a Lucilio 84, 3).
Non so quando potrò ritornare su questo tema. Metto dunque a disposizione dei lettori, come è negli scopi di questo Diario, le annotazioni prese a suo tempo, ancora allo stato grezzo. Si tratta di excerpta, di note che hanno quindi bisogno di venire prima ordinate e poi discusse per assurgere al livello formale di commentarii.
Numerose le testimonianze classiche che paragonano ad api che suggono il polline dai fiori i lettori che raccolgono da molte opere il sapere, vedi la voce: “Biene” in Realencyclopaedie der classichen Atertumswissenchaft, Stuttgart 1897, t. V, coll. 447-448, e la voce “Mel”, ivi, Stuttgart 1931, t.XXIX, alle coll. 379-382.
Api e miele  nella letteratura antica. Inno a Ermes, 552-562: Apollo narra a Ermes come le tre sorelle vergini dee, dalle rapide ali (tre api?), che dimorano nella gola del Parnaso, gli abbiano insegnato la divinazione quando lui ancora fanciullo si dedicava agli armenti; le tre dee, volando da una parte e dall’altra, si nutrono «col miele dei favi, e su ogni cosa danno profezie veritiere. E quando, per aver mangiato il biondo miele, sono prese dall’ispirazione, benignamente consentono a rivelare la verità; ma se sono private del dolce cibo degli dèi, allora mentono, turbinando confusamente. D’ora in poi queste ti dono: tu interrogandole rettamente rallegra il tuo animo». Commento a questo passo in Inni omerici , a cura di Filippo Càssola, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano, 1991, V edizione (I ediz.1975), a p. 542: «Risulta da questi versi che esisteva sul Parnaso, a una certa distanza dal santuario delfico (vv.555-6) un oracolo di Ermes, i cui vaticini erano espressi dal volo delle api, e in particolare dalla direzione del volo (v.558). Le api sono associate anche altrove alle attività profetiche: Iamo, capostipite degli Iamidi – famosi indovini – fu nutrito “con l’innocuo veleno delle api” (Pindaro, Ol. 6,45-7); la Pizia è chiamata “l’ape delfica” (Pindaro, Pyth. 4,59-60); a Labadeia in Beozia il luogo in cui si trovava l’oracolo di Trofonio era stato rivelato da uno sciame d’api, il cui volo fu seguito da Saon di Acrefnie. È degno di nota che il mito conosca un Saon figlio di Ermes (a Samotracia: Diodoro, V, 48) e che Trofonio sia stato confuso con Ermes (Cicerone, Nat.deor., III, 56). Le tre vergini sorelle, fiere delle loro ali veloci, sono evidentemente tre api, che rappresentano l’intero sciame: fra l’altro l’ape è simbolo di verginità». Nessun commento in Càssola al miele «dolce cibo degli dei».
Il mito della nascita di Zeus a Creta  è connesso al tema del miele, cibo degli dei. Esiodo, Teog, 453-467: appena partorito da Rea, Zeus venne nascosto nella grotta Dittea sulla collina Egea nell’isola di Creta. Colà Zeus fu custodito dalla ninfa dei frassini Adrastea e da sua sorella Io, ambedue figlie di Melisseo, e dalla ninfa capra Amaltea. Il bimbo si cibava di miele (questo particolare non in Esiodo ma in altri mitografi) e succhiava il latte di Amaltea in compagnia di Pan suo fratellastro. Melisseo, “l’uomo del miele”, considerato come padre di Adrastea e di Io, è in verità la loro madre, Melissa, la dea nell’aspetto di Ape Regina, che ogni anno uccideva il suo sposo. Diodoro Siculo (V,70) e Callimaco (Inno a Zeus 49) dicono che Zeus bambino fu nutrito dalle api (note tratte da Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1963, p.49).
Anche il piccolo Dioniso, seguendo le istruzioni di Zeus, trasformato in un capretto, viene celato da Ermes in una grotta sul monte Nisa in Elicona dove, accudito dalle ninfe Macride, Nisa, Erato, Bromie e Bacche, viene nutrilo col miele (Apollodoro III,4 3). Graves, p.133 : «Ma la storia di Macride che nutrì Dioniso con del miele, e delle Menadi che usavano come tirsi rami di abete avvolti d’edera, ci ricorda l’uso di una bevanda inebriante primitiva e cioè della birra di abete rinforzata con succo di edera e addolcita con idromele. L’idromele era il “nettare”, ottenuto con miele fermentato, che gli dèi dell’Olimpo omerico continuarono a bere». Da notare anche che nell’Inno a Ermes Apollo, quando giunge alla grotta di Maia, vede tre celle ricolme di nettare e ambrosia, v. 248; anche Dioniso si ciba di miele, nettare, e latte. Orazio, Odi II, 19: «Fas pervicacis est mihi Thyiadas/vinique fontem lactis et uberes/ cantare rivos atque truncis/ lapsa cavis iterare mella». Vino, latte e miele connessi al culto di Dioniso e al mito delle Baccanti. Si veda anche Euripide, Baccanti 142ss: «Scorre il latte al suolo, scorre il vino, scorre il nettare delle api».
Sull’origine celeste e divina del miele e sulla sacralità delle api tutto il IV libro delle Georgiche di Virgilio «caelestia dona»,  IV,1. Le api non si riproducono con atti sessuali ma raccolgono i piccoli sui rami o sulle erbe (IV,197ss.), il genus delle api è immortale (v.208); nelle api vi è una parte della mente divina, un respiro dell’etere (vv.220-221). L’ape è anche un simbolo dell’oltretomba: nel VI libro dell’Eneide, quando Enea si avvicina al Lete e vede le anime che si affrettano ad imbarcarsi, le anime vengono paragonate a delle api. Nell’Età dell’oro, aetas aurea, i primi uomini si cibavano del miele che scendeva dalle piante (scolio a Esiodo, Erga 110 ss., in Graves p. 43). Provenienza “celeste”, dall’alto, del miele. Da qui anche l’uso rituale del miele (con il latte, il sangue e il vino) nel culto dei morti (Iliade XXIII,170ss., Odissea XI, 27, XXIV,67ss.).
Il miele, sostanza divina, celeste, divinatrice, legata alle capacità profetiche, prefigura anche un mondo altro, d’oro, di giustizia: Ovidio, Metam. I,111ss (nell’età dell’oro scorrevano fiumi di latte e di nettare e il biondo miele stillava dalla verde elce); Esiodo, Erga, 233: dove regna giustizia e pace, le api stanno nel mezzo; nella Gerusalemme celeste scorrono dodici fiumi con latte e miele (Esdra, V, 2, 19); nella terra promessa a Israele scorre latte e miele (Esodo 3,8).
Aristofane, Gli uccelli, 750, paragona il poeta tragico Frinico, noto soprattutto per i suoi canti lirici, a un’ape che si nutre «del frutto di melodie divine, versando un canto dolce come il miele». Nell’immagine l’ape vola nei boschi, per le valli, sui monti ove dimorano le Muse: qui essa si nutre di melodie divine, l’ispirazione del canto viene dalle Muse (la Musa dei boschi), confronta Esiodo, anche là il poeta (non ancora ape) produce un canto dolce come il miele. L’immagine e la metafora si reggono sull’analogia miele/canto, perché ambedue “dolci”. Nota a p. 242 di Aristofane, Gli uccelli, a cura di Giuseppe Zanetto, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 1987. Vedere anche Ecclesiazuse 974. Anche in Rane 1298-1300 si parla del prato di Frinico, sacro alle Muse: qui con rovesciamento della metafora, è l’arte stessa di Frinico che è proposta come pastura ad altri poeti, cioè ad altre api, che sapranno stillarne miele (cfr. Del Corno, commento alle Rane, Fondazione Valla-Mondadori, 1985). Controllare se il significato è proprio questo indicato da Zanetto. In Vespe 220, i canti di Frinico sono detti dolci come il miele. Zanetto nella stessa nota richiama anche il dialogo Ione 534b di Platone per testimoniare come l’assimilazione del poeta all’ape è topos caro agli intellettuali greci. Ione 534b: «e come le Baccanti attingono dai fiumi miele e latte, quando sono possedute dal nume, non quando sono nella pienezza del proprio senno, così anche l’anima dei poeti melici fa quello che essi stessi dicono. E i poeti ci dicono che da fonti melliflue, scorrenti da non so quali giardini e boschetti delle Muse, cogliendo i loro canti, li portano a noi, come le api, anch’essi così a volo. E dicono il vero. Il poeta infatti è un essere leggero, alato e sacro, e non è in grado di poetare, se prima non sia posseduto dal nume e fuor di senno e non più padrone della propria mente». Nella vocazione poetica di Esiodo in Teogonia 22-44 non si parla né di api né di miele, ma il passo è tuttavia significativo per cogliere l’immagine del poeta ispirato dalle Muse; ai vv.80ss. si dice che quando nasce un re amato dalle Muse, a lui sulla lingua versano dolce rugiada, e dalla sua bocca scorrono dolci parole, nel greco meilika, dolci come il miele; la dolce rugiada delle Muse è il miele; e più avanti ancora: tale è delle Muse il sacro dono, iere dosis,  per gli uomini (cioè il parlare giustamente e bene, con saggezza in assemblea, cfr. Nestore nell’Iliade); dalle Muse e da Apollo vengono sulla terra gli aedi e i citaristi, da Zeus i re; e beato è colui che le Muse amano; dolce (questa volta glukere) dalla sua bocca scorre la voce; la voce dolce degli aedi toglie dal petto gli affanni e i dolori mentre celebra le glorie degli uomini antichi e gli dèi beati; l’aedo è detto ministro delle Muse.
Amato dalle Muse è il pastore Comata, di cui parla Teocrito VII, 80ss., al quale la Musa gli aveva versato sulle labbra il dolce nettare, come? Nutrito di fiori delicati dalle api camuse, Comata superò la prova nutrendosi di miele. La parola che scorre dolce come il miele è anche in Omero: Iliade I, 249: «dalla sua lingua anche più dolce del miele (melitos) la parola scorreva»; nell’Odissea XII,187 il canto delle Sirene è «suono di miele».
Anche nella letteratura egiziana la stessa immagine: Edda Bresciani (Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino, Einaudi, 1999), p. 342: «svelto a riempire rotoli con scritti, giovane, eminente di fascino, bello di grazia, che interpreta le oscurità degli annali come chi l’ha fatti, tutto ciò che esce dalla sua bocca è impregnato di miele, sicché ne sono rinvigoriti i cuori come se fosse una medicina» papiro dell’età di Ramesse II, XIII sec a.Cr.
Per Ezechiele il rotolo mangiato è dolce come il miele; altre occorrenze simili nei libri sapienziali; Salmo 119,103: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole, più del miele alla bocca».
Aristofane, Le rane, (commento Del Corno), 1298: «In verità, io le ho prese (le canzoni) dove stavano bene, e bene le ho sistemate: non doveva sembrare che le cogliessi dallo stesso prato di Frinico, sacro alle Muse. Invece lui (Euripide) prende il suo miele dappertutto»: il prato di Frinico può essere inteso il prato delle Muse dove Frinico, come ape (Uccelli 750), coglie il miele/canto, ma può anche essere inteso metaforicamente come “opera poetica di Frinico” da cui cogliere miele (canti).  Analogia prato delle Muse/opera del poeta, le opere dei poeti diventano prati da cui cogliere fiori, miele, da parte di altre api/poeti.
Il poeta, lo scrittore, il filosofo come “ape”, occorrenze in RE, Stuttgart 1897, t. V, 447. Molte citazioni dall’Antologia Palatina. Lucrezio III, 10ss. «tuisque ex, inclute, chartis,/ floriferis ut apes in saltibus omnia libant,/ omnia nos itidem depascimur aurea dicta,/ aurea, perpetua semper dignissima vita./»: qui l’ape è anche il lettore di Epicuro, la cui opera è assimilata ai prati fioriti dai quali le api colgono il miele; i libri del filosofo sono dunque miele, sostanza divina, che dà vita (perpetua semper dignissima vita), cibo degli dei; il lettore/poeta si ciba di questo miele; ma già il fatto che il lettore/poeta è “ape”, ciò lo avvicina al divino, alle cose celesti; Epicuro, mente divina come si dice poco dopo, è colui che ha scoperto il vero; Epicuro è il nuovo nume che dilegua i terrori degli uomini. Lucrezio ricorre alle immagini della mitologia antica per trasmettere la nuova concezione del mondo. Sempre Lucrezio in I, 927-950, aveva parlato della sua opera come tutta cosparsa di «musaeo lepore»: che si tratti di miele delle Muse vien subito chiarito: 946-947: «carmine Pierio rationem exponere nostram/ et quasi musaeo dulci contingere melle,/», qui dunque Lucrezio si sente “ape” che stilla miele dai prati fioriti delle Muse Pierie.
Orazio, Odi, IV, 2, 27ss.: «ego apis Matinae/more modoque, / grata carpentis thyma per laborem/ plurimum, circa nemus uvidique/ Tiburis ripas operosa parvos/ carmina fingo./» Orazio poeta si vede e si sente come un’ape, laboriosa, modesta, che compone carmi semplici intorno al bosco e alle rive dell’acquoso Tivoli. Si veda anche Orazio, Epist. I,19,44: «manare poetica mella» stillare miele poetico.