27 gennaio 2014: Fare storia con documenti, ragione e immaginazione

Se non vogliamo limitarci ad approntare interminabili elenchi di notizie e di fatti, a comporre puramente degli annali, come si diceva una volta; se lo scopo del nostro lavoro intellettuale è di compiere ricerca storica, vale a dire scoprire relazioni tra fenomeni del passato, indagarne cause ed effetti, scorgere il filo che può unire mutevoli movimenti di uomini, dobbiamo leggere e interpretare gli indispensabili documenti con la ragione. Senza l’applicazione della ragione non c’è alcuna ricostruzione di forma, e ogni indagine seria mette sempre capo a una forma.
Ci serviamo della ragione dalla iniziale individuazione e delimitazione del nostro oggetto d’indagine alla formulazione delle prime ipotesi di lavoro, che richiedono di essere plausibili; dal lavoro di reperimento delle fonti alla determinazione della loro pertinenza con l’oggetto d’indagine, della loro natura, qualità e attendibilità; dalla logicità delle stabilite relazioni di causa ed effetto alla costante accortezza di non cadere nella sempre incombente legge della retrospettiva, per la quale tutto il passato si presenta come una preparazione dell’evento che si è verificato. La ragione deve governare e sorvegliare tutto il processo del nostro lavoro storiografico, come governa e sorveglia ogni altra indagine scientifica. Per questo diciamo che fare storia è fare scienza, in quanto è scientifico il metodo che applichiamo nell’indagine.
I risultati cui perveniamo non hanno invece lo stesso statuto scientifico dei risultati cui pervengono le scienze cosiddette esatte. La stessa ragione ci mette in guardia dal considerare i nostri risultati definitivi e assoluti. La storia non è una scienza esatta. Anche quando nella conduzione della ricerca abbiamo osservato con scrupolo il metodo più corretto, i risultati conseguiti saranno sempre parziali e relativi. Dei fenomeni del passato, nei quali hanno interagito volontà e condizioni libere diverse e contrastanti, occasioni imprevedibili e velate, casi fortuiti, varietà infinita di caratteri, nonostante tutto il nostro desiderio di obiettività, coglieremo sempre e solo momenti, aspetti, mai totalità. La ‘parzialità’ dei risultati, da non confondere qui con la partigianeria di molti storici, è già inscritta nelle domande che poniamo al passato, domande che sorgono da bisogni intellettuali del presente, espressione di nostri interessi, della nostra vita spirituale. Altre epoche, altre scuole, mosse da altre esigenze, hanno posto e porranno al passato altre domande e riceveranno nuove risposte. Giunti alla fine (ma c’è una fine?) delle nostre lunghe e faticose ricerche non dobbiamo pretendere verità ma verosimiglianze non contraddicevoli; non certezze, che non hanno luogo in alcuna storia, e forse nemmeno nelle scienze cosiddette esatte, ma probabili svolgimenti, presumibili notazioni.
Accanto alla ragione, anche l’immaginazione ha un ruolo nei progressi delle nostre ricerche. Non intendo, parlando di immaginazione come facoltà utile nella ricerca storica, accreditare ricostruzioni fantastiche e romanzate del passato, materia pertinente ad altro genere. Parlo dell’immaginazione come peculiare facoltà di cogliere rapporti di analogia, sempre fecondi di conoscenza; come capacità di immedesimazione del ricercatore in fatti e persone, stabilita sempre per rapporto di analogia con la propria esperienza di vita, con quanto conosciuto e letto. Spesso succede, mentre tentiamo di raccapezzarci in una sempre più accresciuta mole di documenti, che all’improvviso l’immaginazione ci suggerisce un’idea ispiratrice, che ci fa intravedere una relazione, una causa, una nuova ipotesi di lavoro. Di questa immaginazione parlano Darwin e Weber, e ne ho scritto in questo Diario. Vale per la ricerca scientifica; vale anche, e forse a maggior ragione dovendo la storia occuparsi di relazioni umane, per la ricerca storica.