24 agosto 2014: Tolstoj e il “gran mar de l’essere”

Il lungo saggio (si può dire un libro) di Thomas Mann Goethe e Tolstoj. Frammenti sul problema dell’umanità, 1925, in cui stabilisce confronti paralleli tra i due grandi geni, “figli della natura”, è un’opera straordinaria non solo di critica letteraria ma di teoria dell’espressione artistica, di estetica e di etica della cultura. Pagine feconde di pensiero, piene di idee e di suggestioni, stimolanti, che leggo in questi giorni con grande interesse (Thomas Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, Milano, Mondadori-I Meridiani, 1997, pp. 30-156).
Parlando dello “straordinario talento plastico” di Tolstoj, della sua capacità creativa, “dell’umiltà spirituale che è propria dei figli della natura” (pp. 64-65),  Mann cita un passo della novella di Tolstoj Lucerna (1857), “manifestazione aperta di scetticismo intellettuale […], una lamentazione grandiosa sul destino dell’uomo” (Ibidem). Riporto il passo trascrivendolo dall’edizione Tolstoj, Tutte le novelle, Milano, Mondadori – I Meridiani, 2005, I vol., pp. 540-572, il passo alle pp. 566-569:
“Un essere infelice e miserando è l’uomo, che, con tutto il suo bisogno di soluzioni certe e positive, si vede scagliato in questo oceano eternamente in movimento, infinito, di bene e male, di fatti, di considerazioni e di contraddizioni! Da secoli gli uomini si battono e faticano per separare da una parte ciò che è bene e dall’altra ciò che non è bene. Passano i secoli e ovunque, qualunque cosa venga soppesata da una mente imparziale sulla bilancia del bene e del male, la bilancia non oscilla e dalle due parti c’è tanto bene quanto male. Se solo imparasse l’uomo a non giudicare e a non pensare in termini netti e positivi, e a non dare risposte alle domande che gli sono state poste proprio perché restino in eterno domande! Se soltanto capisse che ogni pensiero è al contempo mendace e giusto! Mendace per l’unilateralità, per l’impossibilità dell’uomo di abbracciare tutta la verità, e giusto in quanto espressione di un aspetto delle aspirazioni dell’uomo. Hanno tracciato suddivisioni in questo eternamente mobile, infinito, infinitamente rimescolantesi caos di bene e di male, hanno tracciato linee immaginarie su questo mare e aspettano che questo mare si divida in quel modo. Come se non esistessero milioni di altre suddivisioni che si possono operare da un punto di vista completamente diverso, e su un altro piano. E’ vero che queste nuove suddivisioni vengono elaborate dai secoli, ma anche di secoli ne sono passati e ne passeranno milioni. La civiltà è un bene; la barbarie un male; la libertà è un bene; l’illibertà un male. Ed ecco che questa conoscenza immaginaria distrugge quelle istintive, sacrosante, primigenie esigenze di bene che vi sono nella natura umana”. In questa distretta, in questa condizione piena di lacerazioni, ambiguità e falsità, l’uomo ritrova una sua pace in un religioso sentimento che abbraccia tutta la vita. La novella Lucerna si chiude infatti con queste parole: “E’ infinita la bontà e la saggezza di Colui che ha consentito e ordinato di esistere a tutte queste contraddizioni. Soltanto a te, vermetto insignificante, che con audacia, senza diritto alcuno cerchi di penetrare le Sue leggi, le Sue intenzioni, soltanto a te esse sembrano contraddizioni. Egli guarda mite dalla Sua incommensurabile altezza luminosa e gioisce dell’infinita armonia in cui voi vi muovete tutti contradditoriamente, all’infinito”. Mann sottolinea quell’infinita armonia facendo notare come dietro queste parole si cela in Tolstoj un “culto devoto della natura […]. La natura era il suo elemento com’era l’elemento, la madre benigna e amata, di Goethe” (p.66).
Più avanti nel saggio, Mann riporta un passo tratto dal piccolo libro su Tolstoj pubblicato da Maksim Gor’kij nel 1919 (per Mann il miglior libro di Gor’kij; trad. ital. Ricordi su Leone Tolstoj, Firenze 1921), dove questi ricorda di aver visto Tolstoj solo, seduto in riva al mare: è la scena culminate dei ricordi di Gor’kij: “Egli sedeva, la testa fra le mani, il vento gli faceva palpitare tra le dita i peli argentei della barba. Guardava lontano, sul mare; le piccole onde verdastre rotolavano docili ai suoi piedi e li accarezzavano, quasi volessero raccontare qualcosa di sé al vecchio mago…Egli mi apparve come una pietra antichissima animata di vita, che sa il principio e la fine di tutte le cose e riflette sul quando e sul come sarà la fine delle pietre, delle erbe, della terra, delle acque, del mare, di tutto l’universo dal granello di sabbia fino al sole. E il mare è una parte  della sua anima, e da lui tutto viene e a lui tutto va. Nella pensosa immobilità del vecchio avvertii qualcosa di fatale, di magico. Non so esprimere in parole ciò che in quel momento sentii più che pensai; nel mio cuore vi era giubilo e paura, e tutto alla fine si fuse in un unico senso di beatitudine: – Finché quest’uomo vive, io non sono un orfano sulla terra – ” (pp. 95-96).
I due passi citati da Mann, quello tratto dalla novella Lucerna di Tolstoj e l’altro dai ricordi di Gor’kij, compaiono nel suo saggio in contesti diversi e distanti parecchie pagine. Io li ho voluti accostare perché mi è parso che l’immagine del mare che è in entrambi stabilisca tra i due una profonda relazione. Nel primo passo il mare è metafora dell’eterna condizione umana; nel secondo è metafora dello spazio in cui l’anima del geniale artista liberamente immagina e crea.

Gor’kij con Tolstoj nel 1900 a Jàsnaia Poljana