4 ottobre 2013: “Dopo cena a Ornans” di Gustave Courbet

Vi sono dei quadri che ci hanno talmente colpiti quando li abbiamo visti per la prima volta in un museo o ad una mostra che riaffiorano poi spesso alla nostra mente, anche dopo molto tempo. Per avere così larga parte nella nostra immaginazione, questi quadri, oltre alle loro indubbie qualità pittoriche, devono avere qualcosa che ha a che fare con la nostra vita. Scrive Eugène Delacroix nel suo Diario (20 ottobre 1853): «Io credo fermamente che noi mescoliamo sempre qualcosa di noi stessi nei sentimenti che sembrano venire dagli oggetti che ci colpiscono. È probabile che quelle opere mi piacciano tanto perché rispondono a dei sentimenti che sono i miei. E poiché, sebbene diverse mi danno lo stesso grado di piacere, è segno che di quel genere di impressione che producono, io ritrovo in me stesso la sorgente» (Trad. di Lamberto Vitali, Torino, Einaudi, 2002).
Uno di questi quadri è per me Dopo cena a Ornans (Une après-dînée à Ornans), un capolavoro di Gustave Courbet, che ho visto a Parigi alla bellissima mostra del pittore francese il 22 novembre 2007. Da allora non mi è più uscito dalla mente e dal cuore.
Il quadro, 195×257, conservato a Lille, Palais des Beaux-Arts, iniziato da Courbet nella Franca Contea nel 1848 e concluso a Parigi nell’inverno 1848-1849, è di capitale importanza nella carriera del pittore di Ornans, perché chiude il periodo giovanile e inaugura le tele della maturità. Così lo descrive Courbet: «si era nel mese di novembre, eravamo presso il nostro amico Cuénot; Maret era appena tornato dalla caccia e avevamo ingaggiato Promayet a suonare il violino davanti a mio padre».
In una stanza scura, riscaldata da un grande camino, alcuni amici hanno appena terminato di cenare. È il momento in cui, finite le lunghe e magari accese chiacchiere conviviali, si sta rilassati e felici, in silenzio, ad ascoltare un po’ di musica, ognuno ora in compagnia dei suoi segreti pensieri.
A sinistra, l’uomo di profilo, è il padre dell’artista, Régis Courbet. Tiene il bicchiere nella mano sinistra mentre la destra è abbandonata nella saccoccia della giacca; sembra stia per appisolarsi ma forse è solo teneramente abbandonato al suono del violino. Al centro è l’amico Urbain Cuénot, padrone di casa, occhi grandi e neri, baffi e barba nera. Assorto anch’egli nella musica, ha un’aria pensosa, un poco sognante, il viso appoggiato al braccio. Seduto, di spalle, è Adolphe Marlet, che sta per accendersi la pipa con un tizzone preso dal camino; sotto la sedia è accucciato il suo cane. A destra, Alphonse Promayet, l’amico musicista di Courbet, sta suonando il violino. Massiccio, testa e mani grosse, sopracciglia folte, occhi infossati, Alphonse ha una sagoma fisica che contrasta buffamente con la levità dello strumento. Gustave non c’è. Ma come ha giustamente notato Michèle Haddad si tratta di un «autoritratto per assenza». L’artista c’è, e si sente, in questa straordinaria scena di intimità domestica che raffigura suo padre con i suoi amici di gioventù.
Non è una scena di genere, nello stile olandese del piccolo quadro. Le figure sono ritratte a grandezza naturale, come per tradizione si usava fare nei quadri di storia eroica; ma qui non vi è più alcuna traccia di fantasie eroicizzanti. Ai suoi amici e a suo padre Courbet riserva lo stesso onore che gli olandesi del secolo d’oro avevano riservato a magistrati e a consiglieri di gilde e corporazioni. Ma qui ciò che fa grande è la qualità morale e la verità degli affetti, non la posizione sociale. Ecco il frutto del viaggio di Courbet in Belgio e in Olanda, compiuto nell’agosto del 1846: una sintesi mirabile della scena di genere e dei grandi ritratti di gruppo di Van der Helst. Tutte e solo di Courbet sono la luce che unifica la composizione, la semplicità, la sincerità e la naturalità dei tipi umani.
Quello che più colpisce del quadro è l’effetto di realtà, reso con straordinaria maestria, l’effetto di verità del luogo, di verità dell’ora, momento di pacificati affetti e di condivisa letizia. Sulla tavola frutta di stagione, pere e mele, un tozzo di pane, e l’immancabile vino, rosso e bianco, per l’ultimo bicchiere da sorseggiare con lentezza. Una stupenda natura morta, genere nel quale Courbet, come tutti i grandi pittori, è eccezionale maestro. Accordo dei toni di grigio, bruno e beige.
A un poeta vero, sincero, si perdona tutto, anche qualche incongruenza di scala; comunque compensata da sapienti procedimenti compositivi, che stabiliscono un rapporto stretto tra la scena e noi che guardiamo. La gamba della sedia sulla quale è seduto il padre dell’artista, il muso del cane, il paiolo sulla sinistra sono elementi che toccano il bordo della tela per fare dello spazio del quadro e del nostro un solo spazio. Courbet realista? Certo, ma di un realismo sempre lirico. E allora ascoltiamo anche noi il violino dell’amico Alphonse.
Al Salon del 1449 il successo di Une après-dînée à Ornans fu immediato. Gli valse la medaglia d’oro. Per la novità? Per l’originalità? Nessuno a Parigi prima d’allora conosceva il nome di Courbet. Da questo momento fu sulla bocca di tutti. Delacroix parlò di lui come di un rivoluzionario, mentre Ingres mise in guardia dal seguirne l’esempio, che vedeva pericoloso. Si voleva collocare il quadro addirittura al Louxembourg, poi ci fu un ripensamento. Prese la strada per il Museo di Lille. Nel 1850, ritornando da Bruxelles, Courbet passò da Lille per rivedere il suo quadro: «Non avrei potuto pensare per il mio quadro una destinazione più bella e più onorevole. Tutte le mie simpatie sono per i paesi del Nord».
Scarsa immaginazione e scarso sentimento nascono sempre da scarso realismo. Il realismo di Courbet ravvivando i miei ricordi accende la mia immaginazione. Se, come scrive ancora Delacroix nel Diario (18 luglio 1850) la pittura «è un ponte tra lo spirito del pittore e quello di chi guarda», Courbet ha sicuramente creato con Une après-dînée à Ornans un ponte tra il suo spirito e i sentimenti che rifioriscono dai ricordi bellissimi della mia infanzia.

Era anche allora il mese di novembre. Nella cucina scura di mia nonna Giacomina, il pavimento di mattoni, rischiarata dalla fiamma del camino che riverberava bagliori lampeggianti sulle grandi pentole di rame appese in alto, si festeggiava con polenta e lepre in salmì la battuta di caccia di zio Gaetano, finita da pochi giorni con un bel colpo dopo lunghi appostamenti nei boschi di Misma. Sulla tavola, come fosse Pasqua e Natale, compariva la tovaglia bianca, candido decoro di quella cucina rustica. Dalla credenza si toglievano i piatti e i calici belli. Si mangiava con allegria, l’aria impregnata di odori agrodolci, le voci alte e allegre dei grandi, di cui non perdevo una parola. Finita la polenta, finita la lepre, gustato l’immancabile stracchino, arrivavano in tavola, come nel quadro di Courbet, mele, pere e noci, a fare compagnia alla fiasca di vino. Vedo accucciato vicino al fuoco il cane di caccia di zio Gaetano, che si chiamava Trento e aveva gli occhi di una dolcezza infinita. Se quel giorno era gran festa, era anche merito suo. E sento il Batista, che mi voleva un gran bene, suonare la fisarmonica, che adoravo. Si stava allora tutti zitti, ammirati, ad ascoltare. E vedo la nonna, stanca e contenta, rimettere legna sul fuoco.
Il quadro interiore di quei giorni della mia infanzia e il quadro di Courbet si sovrappongono e quasi si confondono nella mia mente, oggi. Due quadri di una stessa luce, di una stessa dolce malinconia, di uno stesso mondo, ora scomparso per sempre, che sopravvive trasfigurato nella poesia del pittore e dei miei ricordi.

Nel catalogo della mostra di Parigi Gustave Courbet, 13 ottobre 2007 – 28 gennaio 2008, Paris 2007, la scheda del quadro Une après-dînée à Ornans, n. 41, alle pp. 156-157, è di Michel Hilaire. Rimando a questa scheda per la bibliografia.