9 ottobre 2013: Il naturalismo di William Shakespeare

Nell’Atto terzo, scena seconda, di Amleto, il protagonista spiega agli attori, appena giunti a corte, come devono stare sulla scena e come recitare. È un testo di straordinario interesse, che ci svela la concezione dell’arte del grande drammaturgo inglese. Vi sento un’eco di Aristotele e più ancora di Orazio. Le considerazioni di Amleto, che valgono non solo per l’arte drammaturgica ma per tutte le arti, a cominciare dalla pittura, sono espresse col solito linguaggio vivo, icastico, tutto immagini, di Shakespeare. Sono considerazioni che, a ben riflettere, valgono sia per l’arte sia per l’azione morale, perché mettono a fondamento della rappresentazione (dell’azione) semplicità, naturalezza, autenticità.

«Seconda scena  Sala in Castello.

Amleto e tre attori

 Amleto –  Dite il vostro discorso, vi prego, come ve l’ho recitato io; come vi danzasse sulla lingua. Che se me lo urlate come fanno certi nostri attori moderni, tanto mi varrebbe affidare i miei versi a un banditore di piazza. E non falciatemi l’aria con la mano, così: ma tenetevi misurati; ché anche nel torrente, nel vortice, diciamo pure nell’uragano, dei vostri affetti, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Ah mi guasta il sangue quando sento un accidentaccio tanto fatto, imparruccato, ridurre a brandelli la sua passione dilaniandola a morsi pur di sfondar gli orecchi a quelli giù in platea; ai quali arriva tutt’al più, una pantomina incomprensibile, per quel fracasso. Uno così io lo farei frustare per concorrenza sleale al capitan Fracassa e per la sua pretesa di straerodiare Erode. Per carità evitatemi quello strazio.

Primo attore –  State tranquillo, vostro onore, ci penso io.

Amleto –  Ma non siate poi neanche pappemolli. Lasciatevi guidare dal vostro criterio e gusto. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: badando, particolarmente, di non oltrepassare la misura né i limiti della naturalezza; ché lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale, di cui il fine è sempre stato ed è quello di porgere, si direbbe, uno specchio alla natura che mostri alla virtù il suo vero aspetto, al vizio la sua precisa immagine; e d’ogni età e di interi cicli storici, impronta e forma. Ora, il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso può far, talvolta, piacere al pubblico che è l’orbetto, ma non può che disgustare l’intenditore: e il biasimo di uno solo di questi buongustai deve avere più peso per voi gente dell’arte, che l’applauso di un “esaurito” di balordi. Oh, certi attori che ho sentito recitare e lodare, e anche stralodare, per non dir peggio, da ignoranti! Certi attori senza accento né portamento da cristiani né da pagani né da uomini; capaci solo di pavoneggiarsi e muggire! Veniva da pensare se non li avesse manipolati uomini, nel laboratorio della Natura, qualche avventizio che doveva averli sbagliati, tanto era subumana loro imitazione dell’umanità.

 Primo attore –  Mi lusingo di avere sradicato quasi del tutto questi difetti dalla mia compagnia.

 Amleto – Del tutto dovete sradicarli! E a quello che fa la parte del buffone dite di non infarcirla di soggetti, ma di attenersi al testo che fu scritto per lui; perché ce n’è di quelli che, pur di trascinare alla risata i più tangheri spettatori, cominciano essi a dare in grandi risate fracassone, e magari proprio quando l’attenzione avrebbe da fermarsi su battute essenziali che non debbono andar perdute. Volgarissima truffa; la quale mostra, nello sciocco che la compie, bassa ambizione e miseria mentale. Andate a prepararvi

(Da: W. Shakespeare, I capolavori, trad. di Cesare Vico Lodovici, Torino, Einaudi, 1994, vol. II, pp. 70-71)